LA CORTE DI APPELLO
   Ha emesso la seguente ordinanza nella causa civile iscritta  al  n.
 27/1993  del  r.g.  cont.  civ.  di questa corte di appello, posta in
 decisione nell'udienza collegiale del 9 febbraio 1996 e  promossa  in
 questo  grado  dalla  Cooperativa  C.A.P.I.  (Cooperativa  Abitazione
 Proprieta' Indivisa)  societa'  di  abitazione  a.r.l.  con  sede  in
 Alcamo, via Leonardo Pipitone Cangelosi n. 11, rappresentata e difesa
 dall'avv.    Nino  Marino Jr., con studio legale in Trapani, corso V.
 Emanuele n. 98, per procura a margine dell'atto di  appello  del  suo
 rappresentante  legale sig. Amodeo Mariano, elettivamente domiciliato
 in  Palermo,  presso  Mariani  Giuseppe,  via   Tramontana   n.   28,
 appellante,  contro  Guarrasi  Francesca,  nata ad Alcamo il 1 maggio
 1915  ed  ivi  residente  nella  via  XV  Maggio   n.   30   (91011),
 rappresentata e difesa dall'avv.  Fabrizio Zagarella presso e con cui
 a  Palermo  via  Giovanni  Evangelista  Di  Blasi  1 e' elettivamente
 domiciliata, giusta mandato generale alle liti  8  gennaio  1986  del
 notaio  dott.  G.  Spedale  di  Alcamo,  n.   172.272 del repertorio,
 appellata, e il comune di Alcamo in persona del legale rappresentante
 pro-tempore il Commissario straordinario avvocato  Giuseppe  Palmeri,
 rappresentato   e  difeso  dall'avvocato  Giovanna  Mistretta  giusta
 procura alle liti rilasciata in calce alla copia notificata dell'atto
 di  appello in forza di delibera n. 369 del 13 aprile 1993 emessa dal
 medesimo Commissario  munito  dei  poteri  di  giunta,  elettivamente
 domiciliato  a  Palermo  nella via G. Arimondi n. 45 presso lo studio
 dell'avvocato Antonino Volante, appellato.
   1 - Letta la sentenza non definitiva di pari data con la  quale  e'
 stata, tra l'altro disposta la prosecuzione del giudizio in merito ai
 contrapposti motivi di appello della cooperativa C.A.P.I. di Alcamo e
 di  Francesca  Guarrasi relativi ai criteri di liquidazione del danno
 da  quest'ultima   subito   per   l'illegittima   appropriazione   ed
 irreversibile  trasformazione  del  suo  terreno in opere di edilizia
 residenziale pubblica (alloggi popolari) osserva: nessuna delle parti
 ha  impugnato  il  capo  della  sentenza  del  tribunale  di  Trapani
 (passato,  quindi, in giudicato) che ha stabilito essersi verificata,
 pur  in  mancanza  di  un  decreto  di  espropriazione  dell'immobile
 Guarrasi,  destinato  alla  realizzazione  di tale opera pubblica, la
 c.d. occupazione appropriativa o acquisitiva del bene (a  favore  del
 comune  di  Alcamo)  e  ne ha fissato la data in coincidenza con il 9
 febbraio 1981.  La cooperativa C.A.P.I. ha chiesto,  invece,  che  il
 danno   derivato   alla   proprietaria  per  l'illegittima  ablazione
 dell'immobile  fosse  calcolato  con  il  piu'   riduttivo   criterio
 (rispetto  a  quello  del  valore venale contenuto nell'art. 39 della
 legge n. 2359 del 1865), introdotto dall'art.  5-bis  della  legge  8
 agosto 1992 n. 359 per determinare l'indennita' di espropriazione per
 le  aree  edificabili  (quale e' pacificamente quella in esame); e la
 richiesta, priva di  fondamento  al  lume  della  pregressa  costante
 giurisprudenza  della  Corte di cassazione (3249/1995; 4765/1993) che
 riteneva la normativa  inapplicabile  in  tema  di  risarcimento  del
 danno,  e' divenuta attuale in seguito alla legge 28 dicembre 1995 n.
 549 il cui art. 1 comma 65, sostituendo il comma del menzionato  art.
 5-bis  ha  stabilito che le disposizioni dettate dalla norma suddetta
 si  applicano  "in  tutti  i  casi  in  cui  non  sono  stati  ancora
 determinati  in  via  definitiva il prezzo, l'entita' dell'indennizzo
 e/o del risarcimento del danno alla data di entrata in  vigore  della
 legge  di  conversione  del presente decreto".   Ed anche se la nuova
 norma  appare  rivolta  principalmente  a  ribadire   (ed   ampliare)
 l'interpretazione  delle  Sezioni Unite della Cassazione (9872/1994 e
 succ.)   sull'applicabilita'   del   criterio    di    determinazione
 dell'indennita'  di  cui all'art. 5-bis anche ai giudizi in corso, e'
 indubbio che lo stesso viene esteso alla categoria  del  risarcimento
 del   danno   dovuto  al  proprietario  per  l'illegittima  ablazione
 dell'immobile (cfr. art. 3 della legge 27 ottobre 1988 n. 458  -  nel
 testo   modificato   dalla   sentenza   486   del  1991  della  Corte
 costituzionale - proprio in tema di edilizia residenziale pubblica).
   2 - Siffatta estensione  suscita  notevoli  dubbi  di  legittimita'
 costituzionale  gia'  al  lume dello stesso fondamento e della ragion
 d'essere dell'occupazione acquisitiva: l'istituto, infatti,  ritenuto
 da tutti di creazione giurisprudenziale e solitamente attribuito alla
 nota  sentenza  26 febbraio 1983 n. 1464 delle S.U. della Cassazione,
 in realta', ha rappresentato il punto di arrivo (necessitato) di  una
 costante  evoluzione  giurisprudenziale  sviluppatasi nel corso degli
 anni 70 con cui la Corte costituzionale  e  la  Corte  di  cassazione
 avevano   sottoposto   a   revisione   gli   anacronistici  privilegi
 tradizionalmente  riservati  alla  p.  a.  in  tema  di   occupazione
 illegittima (ed irreversibile) di immobili privati, in base ai quali:
     a) si considerava inammissibile l'azione di condanna della p.  a.
 alla restituzione dell'immobile appreso sine titulo per il divieto di
 cui  all'art.  4  della  legge  n.  2248  del  1865  (Cass. 820/1975;
 1378/1972; 641/1969; 1018/1964);
     b) e, d'altra parte al proprietario del suolo, dopo  l'esecuzione
 dell'opera  pubblica,  veniva  riconosciuta una titolarita' meramente
 nominale, sostanzialmente ridotta alla  sola  intestazione  catastale
 del   proprio   immobile   (Cass.   1345/1978;  1549/1975;  145/1972;
 2776/1969).  E, seppure gli si attribuiva il diritto ad ottenerne,  a
 titolo  di  risarcimento  del  danno,  il  valore  venale espresso in
 termini monetari, e'  pur  vero  che  l'amministrazione  espropriante
 conservava un vero e proprio potere discrezionale di sanatoria in via
 amministrativa  della  situazione  illegittima  creata,  mediante  la
 facolta'  di  emanare  in  qualsiasi  momento,  pur  successivo  alla
 costruzione dell'opera, il decreto di espropriazione; che, perfino se
 sopravvenuto  nel  corso del giudizio risarcitorio, questo estingueva
 automaticamente,  anche   contro   la   volonta'   del   danneggiato,
 convertendolo in giudizio di opposizione all'indennita' di esproprio,
 che  restava  la sola obbligazione gravante sulla p. a. (Cass. 5875 e
 3173/1981;  470/1977;  2892  e  2087/1960).    Questa  disciplina  e'
 divenuta  insostenibile  non  appena  la ricordata giurisprudenza, ha
 messo a nudo i limiti di compatibilita' costituzionale del  principio
 di  inammissibilita'  delle  sentenze ripristinatorie o restitutorie,
 circoscrivendone  l'applicazione   alle   attivita'   provvedimentali
 dell'amministrazione:    le    sole    espressive    della   funzione
 amministrativa,  e  non  ricorrenti,  dunque,  in  quelle   meramente
 materiali  di  mero  impiego,  sia  pure  per  fini  pubblici,  della
 proprieta'  privata,  estranee  allo  ius  imperii  e  soggette  alla
 pienezza della funzione giurisdizionale secondo le regole del diritto
 comune (Cass. 4423/1977; 118/1978; 5335 e 5679/1980; 767 e 1004/1981;
 3380  e  6363/1982).   E, d'altra parte, la Consulta con una serie di
 interventi (6/1966; 55  e  56/1968;  92/1982),  aveva  impietosamente
 travolto,  nello  stesso  periodo,  il  corollario  della  proprieta'
 meramente  nominale  affermando   che   essa   deve   necessariamente
 consistere  in  un  complesso di utilita' economicamente valutabili e
 non  puo',  quindi,  sopravvivere  alla  perdita   dei   poteri   del
 proprietario  di  godere e di disporre della cosa; per cui, qualunque
 limitazione e/o imposizione che ne comporti la  menomazione  a  tempo
 indeterminato  oltre  il suo limite naturale, si trasforma in atto di
 ablazione del diritto stesso,  pur  in  mancanza  di  un  decreto  di
 espropriazione.  Da qui la genesi della fattispecie appropriativa con
 cui le Sezioni Unite della Cassazione hanno composto il contrasto tra
 l'interesse  del  proprietario  del  suolo  ad  ottenerne, in caso di
 espropriazione  di  fatto,  la  restituzione  e  quello   dell'autore
 dell'opera  pubblica  ad  evitarne la rimozione e ad acquisirla nella
 proprieta' pubblica, tenendo presente, da un  lato,  che  il  vigente
 ordinamento   vieta   la  coesistenza  di  due  distinti  diritti  di
 proprieta', uno sul suolo, ed uno sulla costruzione. E dall'altro  le
 fattispecie similari di cui agli art. 934 e segg. cod. civ. in cui il
 legislatore sceglie il soggetto portatore dell'interesse prevalente e
 gli  attribuisce  la  proprieta'  del  tutto; nonche' la disposizione
 dell'art. 2933 cod.  civ. che non consente la distruzione di un  bene
 (sostituendovi   il  risarcimento  del  danno  a  favore  dell'avente
 diritto), allorche' sia  di  pregiudizio  per  l'economia  nazionale.
 L'istituto  in tal modo, oltre a costituire una esplicazione concreta
 della funzione sociale della proprieta', ha attuato, secondo la Corte
 costituzionale (384/1990), un completo e perfetto contemperamento dei
 contrastanti interessi  in  gioco,  riconoscendo  all'amministrazione
 espropriante la proprieta' del nuovo (e non piu' scindibile) contesto
 suolo-opera  pubblica.  Ma  in  compenso  attribuendo al proprietario
 illegittimamente spogliato della titolarita' del fondo, in luogo  del
 semplice  indennizzo,  l'integrale ristoro del danno subito, in tutte
 le componenti indicate dall'art. 1223 cod.civ., ivi  compresa  quella
 della  svalutazione  monetaria  collegata  ai  crediti  di valore; ed
 infine,   impedendo   alla   p.a.   di   sottrarsi    all'adempimento
 dell'obbligazione  risarcitoria  con  l'emissione tardiva del decreto
 ablativo, ormai considerato ininfluente sia  sul  piano  dell'assetto
 proprietario  del  bene, sia su quello delle conseguenze risarcitorie
 del fatto illecito gia' consumato ed esaurito (Cass. S.U.  5597/1985;
 12206/1990;  da  ult. 3427/1994; 11474/1993).  Siffatto equilibrio e'
 stato stravolto dal menzionato art. 1 comma 65 della legge n. 549 del
 1995 che ha operato una sorta di sanatoria  generalizzata  del  fatto
 illecito  appropriazione,  analoga a quella per decenni consentita al
 decreto di espropriazione tardivo, ripristinando in tutti  i  profili
 della   vicenda   ablativa   illegittima,  lo  status  di  supremazia
 strutturale della p. a. antecedente  all'affermarsi  dell'occupazione
 acquisitiva:  tramite  questo  istituto,  infatti,  il  privato perde
 definitivamente   -   per   effetto   del   comportamento    illecito
 dell'amministrazione   espropriante  -  la  proprieta'  dell'immobile
 nonche' gli strumenti processuali per ottenerne la  restituzione,  ma
 l'ordinamento  gli promette in cambio, la completa eliminazione delle
 conseguenze patrimoniali dell'ingiusta lesione subita.  Che  vengono,
 invece,  pur  esse  disconosciute  dalla norma legislativa in esame e
 sostituite con  il  "minimo  contributo  e  di  riparazione"  di  cui
 all'art.  5-bis  legge n. 359 del 1992, spettante a chi non ha subito
 alcun  fatto  illecito:  con  il  conseguente  sbilanciamento   degli
 interessi  in  conflitto  e  la completa vanificazione del sistema di
 tutela garantito dall'art.  42 Costit. in caso  di  sacrificio  della
 proprieta'  privata,  ora eludibile mediante un procedimento divenuto
 perfettamente alternativo a quello ablatorio legittimo, rimesso  alle
 scelte  discrezionali dell'amministrazione espropriante (e degli enti
 da essa delegati), senza, neppure il rischio di maggiori  esborsi;  e
 che   svuota   del   tutto   di   contenuto  il  menzionato  precetto
 costituzionale  laddove  attribuisce  soltanto  al   legislatore   di
 stabilire    non   solo   le   ipotesi,   ma   anche   le   procedure
 dell'espropriazione per p. u.
   3 - In effetti, la Corte costituzionale (sent. 31  luglio  1990  n.
 384),  nel  giudicare della legittimita' dell'art. 3 legge n. 458 del
 1988  che  estende  la  disciplina  dell'occupazione  acquisitiva  al
 settore  dell'edilizia  residenziale  pubblica  (ed  a  cui  e' stata
 riconosciuta la  funzione  di  tertium  comparationis  rispetto  alle
 ipotesi  non comprese nella sua previsione), ha giustamente osservato
 che l'art. 42,  terzo  comma,  Costit.  non  esige  ipotesi  ablative
 prefigurate   in   via   generale   ed   accompagnate   da   sequenze
 procedimentali costanti ed  unitarie;  e  che  l'espropriazione  puo'
 esser  disposta  direttamente  dalla  legge, ed anche in relazione ad
 ipotesi atipiche  gia'  verificatesi  nella  realta'  fattuale,  come
 appunto accade nella fattispecie estintivo-acquisitiva.  Tuttavia, la
 stessa Consulta ha specificato che in tale ultimo caso ad impedire la
 violazione   del   menzionato  precetto  costituzionale  concorre  la
 sostituzione  "al  mancato  adempimento  della  pretesa  restitutoria
 imposto  da  preminenti ragioni di pubblico interesse... della tutela
 risarcitoria di cui all'art. 2043 cod. civ. integralmente  garantita"
 (nella  specie)  dal  citato  art. 3 legge n. 458. Il quale, anzi, e'
 stato  dichiarato  costituzionalmente  illegittimo  (sent.  384/1991)
 nella  parte  in  cui  aveva  limitato tale disciplina all'ipotesi di
 accessione invertita provocata da un provvedimento espropriativo  poi
 caducato,  senza  estenderla  a  quella, del tutto analoga, correlata
 alla mancanza in radice del titolo espropriativo perche' mai emesso.
   E, proprio in questa ottica ricostruttiva, la Corte  (442/1993)  ha
 ritenuto del tutto giustificato che l'ente espropriante, il quale non
 faccia   ricorso  ad  un  procedimento  espropriativo  legittimo  per
 acquisire l'area edificabile, subisca  conseguenze  piu'  gravose  di
 quelle previste ove, invece, sia rispettoso dei presupposti formali e
 sostanziali  prescritti dalla legge perche' si determini l'effetto di
 ablazione dell'area.   Ancor piu'  significativamente,  poi,  ha,  di
 recente  (188/1995) dichiarato infondata la questione di legittimita'
 della  vicenda  ablativo-acquisitiva,  perche',  nella  ricostruzione
 offerta   dalla   giurisprudenza   della   Corte  di  cassazione,  la
 regolamentazione   conseguenziale    all'estinzione    del    diritto
 dominicale, caratterizzata dalla non equiparazione, per sanatoria, di
 tale  atipica  fattispecie  a quella della espropriazione per p. u. e
 dal conseguente diritto del proprietario al  risarcimento  del  danno
 piuttosto  che  alla  semplice  indennita',  si mostra, per un verso,
 coerente alla connotazione  illecita  della  vicenda;  e,  per  altro
 verso,  attua  un  perfetto  "bilanciamento  fra  interesse  pubblico
 (correlato  alla  conservazione  dell'opera)  e  l'interesse  privato
 (relativo    alla    riparazione   del   pregiudizio   sofferto   dal
 proprietario)" percio' rientrante nella discrezionalita' delle scelte
 legislative.   In sostanza,  mentre  nel  procedimento  espropriativo
 legittimo  (che  comporta  specifiche  garanzie  per  il proprietario
 espropriato),   ben   possono   venire   in   rilievo   le    opzioni
 (discrezionali)  del  legislatore nell'individuazione del criterio di
 calcolo  dell'indennita'  di  espropriazione  (con  il  solo   limite
 dell'effettivita',    serieta'    ed    adeguatezza,    l'occupazione
 appropriativa si colloca fuori dai canoni di legalita' e, quindi,  in
 essa  opera "il diverso principio, secondo cui ha subito un danno per
 effetto di un'attivita' illecita ha  diritto  ad  un  pieno  ristoro"
 (Corte   costit.   442/1993);   sicche'   il   diritto  all'integrale
 risarcimento, come strumento di  reintegrazione  del  patrimonio  del
 soggetto  offeso  in  sostituzione  e  surrogazione,  fin dal momento
 dell'atto illecito pregiudizievole, del diritto dominicale  sottratto
 dal  comportamento illegittimo altrui, viene a cadere - esso stesso -
 sotto la tutela dell'art. 42 comma terzo cost., divenendo  condizione
 di  legittimita' dell'ablazione di fatto (al pari della dichiarazione
 di p. u. dell'opera).   E, d'altra parte  se  nel  conflitto  tra  il
 diritto  reale  del proprietario del suolo e quello dell'autore della
 costruzione, il sacrificio del primo, pur quando derivi da  ablazione
 illegittima  e' giustificato non solo dalla prevalenza dell'interesse
 pubblico alla conservazione dell'opera, ma dal fatto  che  lo  stesso
 viene   riequilibrato   in  positivo  dalla  previsione  del  diritto
 dell'espropriato all'integrale risarcimento del danno (in  luogo  del
 mero  indennizzo)  compensativo  del  plus  del  sacrificio, connesso
 all'arbitrarieta' dell'occupazione, non e' poi possibile  neppure  al
 legislatore,  come,  invece  ha fatto l'art. 1, comma sessantacinque,
 legge n.  549/1995,  imporre  all'espropriato  un  secondo  ulteriore
 sacrificio  proprio  nella  determinazione  di  detto ristoro; che si
 tradurrebbe in una nuova (parziale) ablazione -  questa  volta  senza
 corrispettivo  -  dell'aliquota  di  risarcimento  non piu' concessa,
 percio', non consentita dal menzionato precetto costituzionale.
   4 - Ma la norma appare in contrasto anche con gli art. 3 e 24 della
 Costituzione: si e'  detto,  infatti,  della  linea  di  rinnovamento
 interpretativo,  sviluppatasi  a  partire  dai primi anni 70, in base
 alla quale la giurisprudenza della Corte  costituzionale,  dopo  aver
 negato  che l'intangibilita' dell'atto amministrativo traesse origine
 da un (costituzionalizzato) principio della divisione dei  poteri  ed
 avesse  fondamento  costituzionale  (sent.  32/1970  e  161/1971), ha
 enucleato il principio che la p. a.  ha una posizione  di  preminenza
 in  base  alla  Costituzione  non  in  quanto  soggetto, ma in quanto
 esercita potesta' specificamente ed esclusivamente attribuitele nelle
 forme tipiche loro proprie.
   In quest'ottica, condivisa e propugnata dalla Corte di  cassazione,
 e'  protetto  non  il  soggetto,  ma  la funzione, ed e' alle singole
 manifestazioni della  p.  a.  che  e'  assicurata  efficacia  per  il
 raggiungimento dei vari fini pubblici ad essa assegnati.
   Pertanto,  ha affermato la Consulta in numerose pronunce (138/1981;
 61, 303 e 1104/1988),  al  di  fuori  dell'esercizio  delle  predette
 funzioni,  l'azione  dell'amministrazione rientra nella disciplina di
 diritto comune, ed, ove venga a  ledere  un  diritto  soggettivo,  la
 potenzialita'  di  tutela  di questo affidata al giudice ordinario e'
 completa; e la posizione della, p. a. non e'  diversa  da  quella  di
 qualsiasi altro debitore.
   Ora  l'art.  1  della  legge  549  non  ha  modificato la struttura
 dell'occupazione appropriativa  fondata  sul  comportamento  illecito
 della p. a. che, appreso senza titolo un suolo privato, vi costruisca
 l'opera    pubblica    rendendone   giuridicamente   impossibile   la
 restituzione, in consapevole violazione delle norme che  stabiliscono
 in  quali  casi e con quale procedimento la proprieta' di un immobile
 privato puo' essere autoritativamente  sacrificata  per  esigenze  di
 pubblico   interesse;   per   cui,   essendo  rimasta  immutata  tale
 connotazione, allorche' l'amministrazione (o l'ente da essa delegato)
 sceglie di non avvalersi della procedura ablativa, ma di acquisire il
 fondo   privato   tramite   l'istituto   in   esame,   il    rapporto
 necessariamente  rientra,  a causa dell'autoassoggettamento dell'ente
 pubblico al regime di diritto comune da esso  prescelto,  nell'ambito
 di  applicazione  e  nello  schema di cui all'art. 2043 cod.  civ., e
 deve, quindi, trovare nella regola privatistica dettata da tale norma
 la propria misura e la propria sanzione. La quale e', di conseguenza,
 unica per tutti i debitori autori del fatto  illecito  -  siano  essi
 pubblici  o  privati  - e consiste, sempre e comunque, nella completa
 reintegrazione patrimoniale del danneggiato a titolo risarcitorio, di
 cui, peraltro, il controvalore del bene sottratto non e' che uno  dei
 possibili  parametri  di  determinazione:  come,  del resto, e' stato
 confermato nel settore in esame dal menzionato art.  3 della legge n.
 458 del 1988, prima  delle  modifiche  apportate  dalla  disposizione
 legislativa    denunciata.      Quest'ultima,   invece,   opera   una
 discriminazione  non  razionalmente  giustificabile  tra  i creditori
 della   p.a.   (ovvero   di   privati)    a    titolo    risarcitorio
 extracontrattuale e creditori della p.a. (ovvero di enti dalla stessa
 delegati)  egualmente  a  titolo  risarcitorio,  ma  per  effetto  di
 accessione invertita,  non  consentendo  soltanto  a  questi  ultimi,
 egualmente  danneggiati,  come  i  primi,  da  un  fatto illecito, di
 conseguire  il  ristoro  dell'intero  pregiudizio  subito  secondo  i
 criteri  di  cui  all'art.  1223  cod.  civ.;  e, quindi, di agire in
 giudizio per la  tutela  della  quota  di  credito  decurtata,  come,
 invece, avrebbero diritto in base al disposto dell'art. 24 Costit.  E
 la  discriminazione appare ancor piu' palese ed incoerente perche' lo
 stesso  legislatore  in  ogni  altra  ipotesi  di  interferenza   e/o
 congiunzione   di   beni   appartenenti  a  proprietari  diversi  con
 attribuzione del tutto ad uno solo di essi e sacrificio  del  diritto
 dominicale  dell'altro  (art.  934/940  cod.  civ.),  a  quest'ultimo
 attribuisce non soltanto un  indennizzo,  ma  anche  il  risarcimento
 dell'ulteriore  danno  subito  per  la  perdita  del  bene; e perche'
 analoga conseguenza  e'  stata  garantita  al  suddetto  proprietario
 perfino  dalla  legislazione  antecedente  alla  Costituzione  che ha
 introdotto  (precorrendone  la  disciplina)  singole  fattispecie  di
 occupazione  appropriativa  (cfr. art. 70 legge n. 2359 del 1865; 225
 segg., nonche' 360 legge n. 2248 del 1865 All. F;  93  r.d.  350  del
 1895).
   Ne'  e'  sostenibile  che  le  posizioni  delle  due  categorie  di
 creditori siano disomogenee  e  non  comparabili  per  le  specifiche
 finalita'    di    pubblica    utilita'   perseguite   dagli   autori
 dell'accessione invertita, volute tutelare dalla norma, in quanto:
     a) essendo tutta l'attivita' dell'amministrazione  (anche  quella
 di  diritto  comune) istituzionalmente preordinata alla realizzazione
 di fini ed interessi pubblici, non e' in vista del  perseguimento  di
 questi  o  di  quelli  che la Costituzione consente al legislatore di
 scegliere un trattamento differenziato rispetto agli  altri  soggetti
 dell'ordinamento;  ma, - si e' visto - unicamente in presenza di atti
 e  comportamenti  che  siano  veramente  espressivi  della   funzione
 amministrativa,  come  dimostra  da ultimo, nel versante pubblico, il
 piu' riduttivo criterio "mediato" scelto dall'art. 5-bis della  legge
 n.  359  del  1992  per  il calcolo dell'indennita' di espropriazione
 legittima, e  giustificato,  secondo  la  Consulta  (283/1993)  anche
 dall'intento  di  contenerne  la relativa spesa, "nel contesto di una
 piu' vasta ed organica manovra finanziaria dello Stato";
     b) d'altra parte, nel versante privatistico,  la  fattispecie  di
 cui   all'art.   2043   cod.   civ.  e'  integrata  da  una  condotta
 antigiuridica, dall'esistenza di un danno e dal nesso  di  causalita'
 tra  la  prima  ed  il secondo, mentre restano ad essa estranei sia i
 motivi che gli scopi per cui il danneggiante  ha  commesso  il  fatto
 illecito;
     c)   infine,  proprio  la  valenza  di  questi  ultimi  e'  stata
 considerata dal legislatore una prima  volta,  e  giudicata  decisiva
 nella  scelta  del  soggetto  cui attribuire la titolarita' del nuovo
 contesto fondo-opera pubblica; per cui non ne e' permessa una seconda
 valutazione, ancora in danno  del  soggetto  gia'  sacrificato  dalla
 prima  proprio in ordine alla consistenza dello strumento riparatorio
 preordinato   a   compensarne   e    riequilibrarne    gli    effetti
 pregiudizievoli.  La  quale,  in  definitiva,  finisce per ridurre il
 fatto  illecito  dell'amministrazione ad un merum nomen, che piu' non
 si riflette in negativo sul suo autore e del quale, anzi,  sopravvive
 paradossalmente  soltanto  il  piu'  favorevole  (per l'espropriante)
 regime della prescrizione di cui all'art. 2947 cod. civ., rispetto  a
 quello ordinario cui e' sottoposto l'indennizzo.
   5.  -  I precetti degli art. 3 e 24 Costit. sembrano poi, vulnerati
 sotto altro profilo: cio' perche' l'art. 1 comma  sessantacinquesimo,
 non  solo  sottrae  al  proprietario  vittima dell'illecita ablazione
 l'integrale risarcimento del  danno  sofferto,  ma  lo  pone  in  una
 condizione  addirittura  sfavorevole rispetto a quello che ha perduto
 l'immobile con vocazione edificatoria per  effetto  di  una  corretta
 procedura espropriativa.  Infatti, seppure l'indennizzo espropriativo
 in   favore   di  quest'ultimo  deve  essere  calcolato,  secondo  il
 menzionato art.5-bis, in misura pari alla semisomma del valore venale
 dell'immobile e dei redditi dominicali dell'ultimo decennio  (si'  da
 essere  pari  a  circa  il  50%  di detto valore), il proprietario in
 questione puo' evitare  l'ulteriore  abbattimento  del  40%  previsto
 dalla  norma  (che ridurrebbe l'importo a circa il 30% dell'effettivo
 valore  venale),  accettando   l'indennita'   determinata   in   sede
 amministrativa  e  convenendo la cessione volontaria del bene.  Ma il
 sub-procedimento  di  determinazione   ed   offerta   dell'indennita'
 (provvisoria)  di  espropriazione  non  puo' trovare collocazione nel
 contesto della vicenda estintivo-acquisitiva, in cui, fino al momento
 dell'irreversibile  trasformazione   del   fondo,   l'amministrazione
 occupante  (al  pari  dell'ente  da essa delegato) e' tenuta alla sua
 restituzione  ed  esposta  alle  azioni  restitutorie  e  possessorie
 esperibili dal proprietario (Cass. 12266 e 2414/1993; 8418/1992; 1867
 e  1863/1991);  mentre successivamente su di essi grava, ex art. 2043
 cod. civ., l'obbligazione del risarcimento del danno avente natura  e
 funzione  affatto  diverse  dall'indennita'  di  espropriazione; che,
 infatti, nell'ablazione subita dalla Guarrasi - oggetto del  giudizio
 che  si  rimette  a  codesta  Corte - non e' stata mai determinata ed
 offerta ne' dal comune di Alcamo, ne' dalla cooperativa dallo  stesso
 delegata.    Ancor  meno  praticabile e', poi, la cessione volontaria
 (costituente,  secondo  la  Consulta,  la   vera   finalita'   intesa
 perseguire dal legislatore del 1992), pur nell'ipotesi che detti enti
 offrano all'ex proprietario una somma a titolo risarcitorio del danno
 provocato:  perche',  al  pari  di  quanto si verifica per il decreto
 ablativo emesso successivamente alla  vicenda  estintivo-acquisitiva,
 il  contratto di cessione che dovrebbe seguire all'accettazione della
 somma, sarebbe radicalmente nullo per mancanza di oggetto e di causa,
 non potendo l'amministrazione acquistare un bene gia' entrato  a  far
 parte  del  suo  demanio  o  del  suo patrimonio indisponibile (Corte
 costit. n. 283/1993 in  motivaz.).    Per  cui,  in  definitiva,  per
 effetto   della   norma   del   1995,  il  proprietario  che  subisce
 l'occupazione acquisitiva, puo' ottenere  dall'espropriante  soltanto
 una   somma  pari  a  circa  il  30%  del  valore  venale  del  fondo
 sottrattogli, a differenza del soggetto  passivo  dell'espropriazione
 legittima,  che,  accettando l'indennita' offertagli, consegue il 50%
 dello stesso valore; e beneficia  del  piu'  vantaggioso  termine  di
 prescrizione decennale per richiederne il pagamento.
   6.   -   Sussistono   ulteriori  profili,  contigui  a  quello  ora
 prospettato,  di  sospetta   violazione   dei   menzionati   precetti
 costituzionali:  l'art.    46  legge  n.  2359  del  1865 attribuisce
 un'indennita' ai proprietari  dei  fondi  i  quali  dalla  esecuzione
 dell'opera   di   pubblica  utilita'  vengano  a  soffrire  un  danno
 permanente derivante dalla perdita o dalla diminuzione di un diritto.
   Questa  norma,  costituente  da  decenni   un'ipotesi   tipica   di
 responsabilita'  della  p.a.  per  atti  legittimi,  e'  stata sempre
 interpretata  dalla  Corte  di  cassazione  nel  senso  di  ritenersi
 applicabile,  anzitutto, all'ipotesi di distruzione o eliminazione di
 un immobile presistente e, comunque, di annullamento  delle  facolta'
 costituenti   il  nucleo  essenziale  del  diritto  dominicale  (S.U.
 57/1978;    4380/1987;    9693/1990);    e,    quanto     all'oggetto
 dell'indennizzo,  che,  seppure  dalla sua previsione esulano i danni
 per  lucro  cessante  peculiari  del  solo  risarcimento  per   fatto
 illecito, lo stesso deve necessariamente comprendere l'intera perdita
 di  contenuto  patrimoniale effettivamente ed oggettivamente derivata
 dall'esecuzione dell'opera pubblica: e,  quindi,  ove  essa  consista
 nella  distruzione  di  un immobile o nell'azzeramento delle facolta'
 del  proprietario,  il  controvalore  intrinseco  del   bene   (Cass.
 778/1993;   11782/1992;  3188/1994;  77/1975).    In  base  a  queste
 considerazioni appare palese la  disparita'  di  trattamento  tra  il
 proprietario  del fondo contiguo che per effetto dell'opera pubblica,
 perda definitivamente  l'immobile  o,  comunque,  subisca  il  totale
 svuotamento   delle   facolta'   dominicali,   ed   il   proprietario
 dell'immobile  appreso  per  la  realizzazione  dell'opera  suddetta;
 perche'  il  primo, perfino nell'ipotesi di ablazione legittima, puo'
 ottenere l'equivalente del bene ex art. 46 della legge  n.  2359  (e,
 nell'ipotesi  di  ablazione  illegittima,  anche  i  danni  per lucro
 cessante:  cfr.     Cass.  6754/1994),  laddove   l'art.   1,   comma
 sessantacinquesimo,   in   esame   attribuisce  al  secondo  soltanto
 un'aliquota pari a circa il 30% del valore del fondo illegittimamente
 sottrattogli.   Eguale  disparita'  di  trattamento,  la  Corte  deve
 ravvisare  tra  quest'ultimo  e  lo  stesso  proprietario che subisca
 l'occupazione illegittima del proprio fondo, tuttavia non trasformata
 in  opera  pubblica  (e,  comunque,  per  il  periodo  compreso   tra
 l'occupazione  sine titulo e la irreversibile trasformazione), ovvero
 trasformata senza alcuna dichiarazione di p.u.:  in  queste  ipotesi,
 infatti,   costituenti   una   fattispecie   di  illecito  di  natura
 permanente, secondo la  giurisprudenza  della  Corte  di  cassazione,
 ormai   consolidata  da  decenni,  al  suddetto  proprietario  spetta
 l'integrale  risarcimento  del  pregiudizio  subito   in   tutte   le
 componenti  di  cui  all'art.  2043  cod.  civ. (ivi incluso il lucro
 cessante   derivante   dalla   perduta   possibilita'   di    vendita
 dell'immobile  ovvero  di  utilizzarlo per scopi edilizi); e soltanto
 nell'ipotesi in  cui  egli  si  sottragga  all'onere  di  fornire  la
 relativa  prova, gli interessi legali annui sull'intero valore venale
 del  fondo  occupato  (Cass.      2791/1989;   2617/1985;   1196/1986
 3590/1983).    Analogo  criterio vale per il proprietario che subisca
 l'imposizione di fatto di una servitu' (di  elettrodotto,  gasodotto,
 acquedotto  ecc.)  sul  proprio fondo, anch'egli titolare del diritto
 all'integrale ristoro del danno provocatogli  dall'asservimento,  pur
 ricevendo  un  pregiudizio  inferiore  rispetto  al  proprietario che
 subisca l'accessione  invertita  (Cass.  S.U.  8065/1990;  2724/1991;
 nonche'  3573/1992;  250/1995).    E  seppure, secondo la Consulta il
 principio di eguaglianza esige la presenza di situazioni omogenee  e,
 quindi,   comparabili,   quali   per  certi  versi  non  sono  quelle
 rappresentate  nelle  ultime  fattispecie,  e'  pur vero che siffatta
 giurisprudenza ne preclude l'applicazione allorche' la situazione  di
 chi  l'invochi  sia  deteriore  rispetto  a  quella  legislativamente
 privilegiata o comunque priva di  quei  presupposti  di  fatto  e  di
 diritto che questa, invece, possiede.
   Ma,  nel  caso,  la  discriminazione  che  si  denuncia e' di segno
 opposto nel senso che, pur provocando il fatto illecito in  esame  la
 lesione  e  le  conseguenze  pregiudizievoli massime ipotizzabili nel
 settore dei diritti  reali,  le  stesse  ricevono  una  minor  tutela
 rispetto  alle  altre situazioni evidenziate, per effetto della norma
 contestata; che trasmoda percio',  in  un  regolamento  arbitrario  e
 ridondante  in  una  ingiustificata  disparita' di trattamento: tanto
 piu' irrazionale in quanto la  Corte  costituzionale  aveva,  semmai,
 ritenuto conforme ai canoni costituzionali che l'autore dell'illecita
 appropriazione  subisca conseguenze economiche piu' gravose di quelle
 previste dal  legislatore  allorche'  venga  osservata  la  procedura
 ablativa.
   7. - La stessa norma, infine, non sembra rispettosa neppure del
  precetto  dell'art.  97  Costit.:  dalla  disposizione  dell'art. 42
 Costit.  secondo cui la proprieta' puo' essere espropriata "nei  casi
 preveduti  dalla legge", consegue necessariamente non solo che spetta
 al legislatore questi casi determinare e regolare mediante specifiche
 procedure  ablative,  ma  anche   che,   allorquando   le   pubbliche
 amministrazioni  e  gli  enti da esse delegate intendono avvalersene,
 gli  stessi  ed  i  loro  funzionari   sono   tenuti   ad   osservare
 rigorosamente  i procedimenti suddetti: lo richiedono, del resto, non
 solo il principio di legalita' dell'azione  amministrativa  (art.  13
 segg.,  24 e 113 Costit.), ma anche quelli di buona amministrazione e
 di imparzialita' dell'azione amministrativa, espressamente  enunciati
 dall'art.  97  (e  dall'art.    98, primo comma) Costit., al lume dei
 quali  l'occupazione  appropriativa  non   costituisce   affatto   un
 procedimento  alternativo  (e  discrezionale)  rispetto  a  quelli di
 espropriazione disciplinati dalla  legge,  ma  soltanto  una  vicenda
 patologica  e  del tutto anomala; che infatti (proprio perche' lesiva
 del diritto dominicale dell'espropriato), ha fino ad ora  esposto  la
 p.a.  ai  maggiori e ben piu' gravosi esborsi previsti dall'art. 2043
 cod. civ. (soprattutto, in caso di acquisizione di aree edificabili);
 ed ha costituito, di riflesso,  possibile  causa  di  responsabilita'
 contabile  dell'amministratore  (o  funzionario)  pubblico  che li ha
 provocati non osservando la procedura ablativa.   Questo  sistema  e'
 stato  recentemente  completato dagli art. 4 e segg.  della legge 241
 del 1990 che hanno creato la figura del funzionario responsabile  del
 procedimento amministrativo (cfr. anche gli art.  23 legge n. 144 del
 1989  e  123  d.-l.  n.  77  del  1995  che, infrangendo il principio
 dell'impersonalita'   dell'apparato   pubblico,   hanno    introdotto
 un'ipotesi  inedita  di  responsabilita' diretta e personale di detto
 funzionario per  gli  effetti  dell'attivita'  contrattuale  da  esso
 compiuta in violazione delle disposizioni di legge sulla contabilita'
 di alcuni enti pubblici).
   Con  tale  contesto,  volto  al recupero del senso di legalita', di
 correttezza e di responsabilita' della p.a. e dei suoi funzionari, si
 pone in piena collisione la  norma  denunciata,  la  quale  non  solo
 rimette  al  mero arbitrio dell'una e degli altri la scelta del fatto
 illecito piuttosto che del procedimento legittimo  per  acquisire  la
 proprieta'  privata,  ma  li induce necessariamente a privilegiare il
 primo, perche' divenuto, in seguito al nuovo parametro  risarcitorio,
 piu'   rispondente  agli  interessi  economici  dell'amministrazione:
 nell'ipotesi comune e normale,  infatti,  il  procedimento  ablatorio
 legittimo  si  svolge attraverso un periodo di occupazione temporanea
 d'urgenza non superiore ai  cinque  anni  (piu'  volte  prorogati  da
 recenti  e  ben  note  disposizioni  legislative),  prima  della  cui
 scadenza  viene   adottato   il   decreto   di   esproprio;   sicche'
 l'espropriante  e'  tenuto al pagamento di un indennizzo per il detto
 periodo di occupazione oltre  all'indennita'  di  espropriazione.  La
 quale,  ove  venga  accettata  dal  proprietario, e' pari, come si e'
 visto, a circa il 50% del valore venale dell'immobile determinato con
 riferimento temporale alla data  del  decreto  ablativo,  in  cui  il
 valore  del  bene  ha  subito  una  (talvolta  notevole) lievitazione
 rispetto  al  momento  dell'iniziale  occupazione.      Invece,   con
 l'espropriazione  di  fatto, divenuta piu' conveniente in forza della
 norma censurata, la p.a. puo' evitare, sia il ricorso all'occupazione
 temporanea  (con  gli  oneri  economici  correlati),  sia   l'offerta
 dell'indennita'  provvisoria  con  la conseguente ulteriore riduzione
 dell'obbligazione risarcitaroria ad una somma corrispondente a  circa
 il  30%  del  valore  del  suolo  appreso,  per  di  piu' determinato
 all'epoca  dell'irreversibile  trasformazione  (solitamente  di  poco
 successiva  alla  materiale  apprensione  del  bene):  e,  quindi, in
 definitiva meglio attenersi alle direttive economiche perseguite  dal
 legislatore  del  1995,  seppur  con sacrificio del ricordato art. 97
 Costit. che le impone di confrontare e comparare sempre  e  comunque,
 nel   perseguimento  dei  compiti  affidatile,  le  posizioni  e  gli
 interessi dei privati anche quando siano confliggenti e  contrastanti
 con quelli propri (cfr. art. 13 T.U. n. 3 del 1957).
   Anche  sotto  questo  profilo,  dunque,  la norma si rivela, per un
 verso,  priva  di  una  qualsiasi  ratio  che  non  sia   quella   di
 privilegiare  le  esigenze  della  finanza pubblica; e si palesa, per
 altro verso, come una negazione, non solo  del  buon  andamento  e  i
 dell'imparzialita',  ma  anche  di una razionale e coerente attivita'
 dell'amministrazione.
   Considerato,  pertanto,  che  la  questione   prospettata   risulta
 rilevante per il giudizio in corso che non puo' essere definito senza
 la sua decisione.