LA CORTE DI APPELLO Ha emesso la seguente ordinanza nella causa civile iscritta al n. 27/1993 del r.g. cont. civ. di questa corte di appello, posta in decisione nell'udienza collegiale del 9 febbraio 1996 e promossa in questo grado dalla Cooperativa C.A.P.I. (Cooperativa Abitazione Proprieta' Indivisa) societa' di abitazione a.r.l. con sede in Alcamo, via Leonardo Pipitone Cangelosi n. 11, rappresentata e difesa dall'avv. Nino Marino Jr., con studio legale in Trapani, corso V. Emanuele n. 98, per procura a margine dell'atto di appello del suo rappresentante legale sig. Amodeo Mariano, elettivamente domiciliato in Palermo, presso Mariani Giuseppe, via Tramontana n. 28, appellante, contro Guarrasi Francesca, nata ad Alcamo il 1 maggio 1915 ed ivi residente nella via XV Maggio n. 30 (91011), rappresentata e difesa dall'avv. Fabrizio Zagarella presso e con cui a Palermo via Giovanni Evangelista Di Blasi 1 e' elettivamente domiciliata, giusta mandato generale alle liti 8 gennaio 1986 del notaio dott. G. Spedale di Alcamo, n. 172.272 del repertorio, appellata, e il comune di Alcamo in persona del legale rappresentante pro-tempore il Commissario straordinario avvocato Giuseppe Palmeri, rappresentato e difeso dall'avvocato Giovanna Mistretta giusta procura alle liti rilasciata in calce alla copia notificata dell'atto di appello in forza di delibera n. 369 del 13 aprile 1993 emessa dal medesimo Commissario munito dei poteri di giunta, elettivamente domiciliato a Palermo nella via G. Arimondi n. 45 presso lo studio dell'avvocato Antonino Volante, appellato. 1 - Letta la sentenza non definitiva di pari data con la quale e' stata, tra l'altro disposta la prosecuzione del giudizio in merito ai contrapposti motivi di appello della cooperativa C.A.P.I. di Alcamo e di Francesca Guarrasi relativi ai criteri di liquidazione del danno da quest'ultima subito per l'illegittima appropriazione ed irreversibile trasformazione del suo terreno in opere di edilizia residenziale pubblica (alloggi popolari) osserva: nessuna delle parti ha impugnato il capo della sentenza del tribunale di Trapani (passato, quindi, in giudicato) che ha stabilito essersi verificata, pur in mancanza di un decreto di espropriazione dell'immobile Guarrasi, destinato alla realizzazione di tale opera pubblica, la c.d. occupazione appropriativa o acquisitiva del bene (a favore del comune di Alcamo) e ne ha fissato la data in coincidenza con il 9 febbraio 1981. La cooperativa C.A.P.I. ha chiesto, invece, che il danno derivato alla proprietaria per l'illegittima ablazione dell'immobile fosse calcolato con il piu' riduttivo criterio (rispetto a quello del valore venale contenuto nell'art. 39 della legge n. 2359 del 1865), introdotto dall'art. 5-bis della legge 8 agosto 1992 n. 359 per determinare l'indennita' di espropriazione per le aree edificabili (quale e' pacificamente quella in esame); e la richiesta, priva di fondamento al lume della pregressa costante giurisprudenza della Corte di cassazione (3249/1995; 4765/1993) che riteneva la normativa inapplicabile in tema di risarcimento del danno, e' divenuta attuale in seguito alla legge 28 dicembre 1995 n. 549 il cui art. 1 comma 65, sostituendo il comma del menzionato art. 5-bis ha stabilito che le disposizioni dettate dalla norma suddetta si applicano "in tutti i casi in cui non sono stati ancora determinati in via definitiva il prezzo, l'entita' dell'indennizzo e/o del risarcimento del danno alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto". Ed anche se la nuova norma appare rivolta principalmente a ribadire (ed ampliare) l'interpretazione delle Sezioni Unite della Cassazione (9872/1994 e succ.) sull'applicabilita' del criterio di determinazione dell'indennita' di cui all'art. 5-bis anche ai giudizi in corso, e' indubbio che lo stesso viene esteso alla categoria del risarcimento del danno dovuto al proprietario per l'illegittima ablazione dell'immobile (cfr. art. 3 della legge 27 ottobre 1988 n. 458 - nel testo modificato dalla sentenza 486 del 1991 della Corte costituzionale - proprio in tema di edilizia residenziale pubblica). 2 - Siffatta estensione suscita notevoli dubbi di legittimita' costituzionale gia' al lume dello stesso fondamento e della ragion d'essere dell'occupazione acquisitiva: l'istituto, infatti, ritenuto da tutti di creazione giurisprudenziale e solitamente attribuito alla nota sentenza 26 febbraio 1983 n. 1464 delle S.U. della Cassazione, in realta', ha rappresentato il punto di arrivo (necessitato) di una costante evoluzione giurisprudenziale sviluppatasi nel corso degli anni 70 con cui la Corte costituzionale e la Corte di cassazione avevano sottoposto a revisione gli anacronistici privilegi tradizionalmente riservati alla p. a. in tema di occupazione illegittima (ed irreversibile) di immobili privati, in base ai quali: a) si considerava inammissibile l'azione di condanna della p. a. alla restituzione dell'immobile appreso sine titulo per il divieto di cui all'art. 4 della legge n. 2248 del 1865 (Cass. 820/1975; 1378/1972; 641/1969; 1018/1964); b) e, d'altra parte al proprietario del suolo, dopo l'esecuzione dell'opera pubblica, veniva riconosciuta una titolarita' meramente nominale, sostanzialmente ridotta alla sola intestazione catastale del proprio immobile (Cass. 1345/1978; 1549/1975; 145/1972; 2776/1969). E, seppure gli si attribuiva il diritto ad ottenerne, a titolo di risarcimento del danno, il valore venale espresso in termini monetari, e' pur vero che l'amministrazione espropriante conservava un vero e proprio potere discrezionale di sanatoria in via amministrativa della situazione illegittima creata, mediante la facolta' di emanare in qualsiasi momento, pur successivo alla costruzione dell'opera, il decreto di espropriazione; che, perfino se sopravvenuto nel corso del giudizio risarcitorio, questo estingueva automaticamente, anche contro la volonta' del danneggiato, convertendolo in giudizio di opposizione all'indennita' di esproprio, che restava la sola obbligazione gravante sulla p. a. (Cass. 5875 e 3173/1981; 470/1977; 2892 e 2087/1960). Questa disciplina e' divenuta insostenibile non appena la ricordata giurisprudenza, ha messo a nudo i limiti di compatibilita' costituzionale del principio di inammissibilita' delle sentenze ripristinatorie o restitutorie, circoscrivendone l'applicazione alle attivita' provvedimentali dell'amministrazione: le sole espressive della funzione amministrativa, e non ricorrenti, dunque, in quelle meramente materiali di mero impiego, sia pure per fini pubblici, della proprieta' privata, estranee allo ius imperii e soggette alla pienezza della funzione giurisdizionale secondo le regole del diritto comune (Cass. 4423/1977; 118/1978; 5335 e 5679/1980; 767 e 1004/1981; 3380 e 6363/1982). E, d'altra parte, la Consulta con una serie di interventi (6/1966; 55 e 56/1968; 92/1982), aveva impietosamente travolto, nello stesso periodo, il corollario della proprieta' meramente nominale affermando che essa deve necessariamente consistere in un complesso di utilita' economicamente valutabili e non puo', quindi, sopravvivere alla perdita dei poteri del proprietario di godere e di disporre della cosa; per cui, qualunque limitazione e/o imposizione che ne comporti la menomazione a tempo indeterminato oltre il suo limite naturale, si trasforma in atto di ablazione del diritto stesso, pur in mancanza di un decreto di espropriazione. Da qui la genesi della fattispecie appropriativa con cui le Sezioni Unite della Cassazione hanno composto il contrasto tra l'interesse del proprietario del suolo ad ottenerne, in caso di espropriazione di fatto, la restituzione e quello dell'autore dell'opera pubblica ad evitarne la rimozione e ad acquisirla nella proprieta' pubblica, tenendo presente, da un lato, che il vigente ordinamento vieta la coesistenza di due distinti diritti di proprieta', uno sul suolo, ed uno sulla costruzione. E dall'altro le fattispecie similari di cui agli art. 934 e segg. cod. civ. in cui il legislatore sceglie il soggetto portatore dell'interesse prevalente e gli attribuisce la proprieta' del tutto; nonche' la disposizione dell'art. 2933 cod. civ. che non consente la distruzione di un bene (sostituendovi il risarcimento del danno a favore dell'avente diritto), allorche' sia di pregiudizio per l'economia nazionale. L'istituto in tal modo, oltre a costituire una esplicazione concreta della funzione sociale della proprieta', ha attuato, secondo la Corte costituzionale (384/1990), un completo e perfetto contemperamento dei contrastanti interessi in gioco, riconoscendo all'amministrazione espropriante la proprieta' del nuovo (e non piu' scindibile) contesto suolo-opera pubblica. Ma in compenso attribuendo al proprietario illegittimamente spogliato della titolarita' del fondo, in luogo del semplice indennizzo, l'integrale ristoro del danno subito, in tutte le componenti indicate dall'art. 1223 cod.civ., ivi compresa quella della svalutazione monetaria collegata ai crediti di valore; ed infine, impedendo alla p.a. di sottrarsi all'adempimento dell'obbligazione risarcitoria con l'emissione tardiva del decreto ablativo, ormai considerato ininfluente sia sul piano dell'assetto proprietario del bene, sia su quello delle conseguenze risarcitorie del fatto illecito gia' consumato ed esaurito (Cass. S.U. 5597/1985; 12206/1990; da ult. 3427/1994; 11474/1993). Siffatto equilibrio e' stato stravolto dal menzionato art. 1 comma 65 della legge n. 549 del 1995 che ha operato una sorta di sanatoria generalizzata del fatto illecito appropriazione, analoga a quella per decenni consentita al decreto di espropriazione tardivo, ripristinando in tutti i profili della vicenda ablativa illegittima, lo status di supremazia strutturale della p. a. antecedente all'affermarsi dell'occupazione acquisitiva: tramite questo istituto, infatti, il privato perde definitivamente - per effetto del comportamento illecito dell'amministrazione espropriante - la proprieta' dell'immobile nonche' gli strumenti processuali per ottenerne la restituzione, ma l'ordinamento gli promette in cambio, la completa eliminazione delle conseguenze patrimoniali dell'ingiusta lesione subita. Che vengono, invece, pur esse disconosciute dalla norma legislativa in esame e sostituite con il "minimo contributo e di riparazione" di cui all'art. 5-bis legge n. 359 del 1992, spettante a chi non ha subito alcun fatto illecito: con il conseguente sbilanciamento degli interessi in conflitto e la completa vanificazione del sistema di tutela garantito dall'art. 42 Costit. in caso di sacrificio della proprieta' privata, ora eludibile mediante un procedimento divenuto perfettamente alternativo a quello ablatorio legittimo, rimesso alle scelte discrezionali dell'amministrazione espropriante (e degli enti da essa delegati), senza, neppure il rischio di maggiori esborsi; e che svuota del tutto di contenuto il menzionato precetto costituzionale laddove attribuisce soltanto al legislatore di stabilire non solo le ipotesi, ma anche le procedure dell'espropriazione per p. u. 3 - In effetti, la Corte costituzionale (sent. 31 luglio 1990 n. 384), nel giudicare della legittimita' dell'art. 3 legge n. 458 del 1988 che estende la disciplina dell'occupazione acquisitiva al settore dell'edilizia residenziale pubblica (ed a cui e' stata riconosciuta la funzione di tertium comparationis rispetto alle ipotesi non comprese nella sua previsione), ha giustamente osservato che l'art. 42, terzo comma, Costit. non esige ipotesi ablative prefigurate in via generale ed accompagnate da sequenze procedimentali costanti ed unitarie; e che l'espropriazione puo' esser disposta direttamente dalla legge, ed anche in relazione ad ipotesi atipiche gia' verificatesi nella realta' fattuale, come appunto accade nella fattispecie estintivo-acquisitiva. Tuttavia, la stessa Consulta ha specificato che in tale ultimo caso ad impedire la violazione del menzionato precetto costituzionale concorre la sostituzione "al mancato adempimento della pretesa restitutoria imposto da preminenti ragioni di pubblico interesse... della tutela risarcitoria di cui all'art. 2043 cod. civ. integralmente garantita" (nella specie) dal citato art. 3 legge n. 458. Il quale, anzi, e' stato dichiarato costituzionalmente illegittimo (sent. 384/1991) nella parte in cui aveva limitato tale disciplina all'ipotesi di accessione invertita provocata da un provvedimento espropriativo poi caducato, senza estenderla a quella, del tutto analoga, correlata alla mancanza in radice del titolo espropriativo perche' mai emesso. E, proprio in questa ottica ricostruttiva, la Corte (442/1993) ha ritenuto del tutto giustificato che l'ente espropriante, il quale non faccia ricorso ad un procedimento espropriativo legittimo per acquisire l'area edificabile, subisca conseguenze piu' gravose di quelle previste ove, invece, sia rispettoso dei presupposti formali e sostanziali prescritti dalla legge perche' si determini l'effetto di ablazione dell'area. Ancor piu' significativamente, poi, ha, di recente (188/1995) dichiarato infondata la questione di legittimita' della vicenda ablativo-acquisitiva, perche', nella ricostruzione offerta dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, la regolamentazione conseguenziale all'estinzione del diritto dominicale, caratterizzata dalla non equiparazione, per sanatoria, di tale atipica fattispecie a quella della espropriazione per p. u. e dal conseguente diritto del proprietario al risarcimento del danno piuttosto che alla semplice indennita', si mostra, per un verso, coerente alla connotazione illecita della vicenda; e, per altro verso, attua un perfetto "bilanciamento fra interesse pubblico (correlato alla conservazione dell'opera) e l'interesse privato (relativo alla riparazione del pregiudizio sofferto dal proprietario)" percio' rientrante nella discrezionalita' delle scelte legislative. In sostanza, mentre nel procedimento espropriativo legittimo (che comporta specifiche garanzie per il proprietario espropriato), ben possono venire in rilievo le opzioni (discrezionali) del legislatore nell'individuazione del criterio di calcolo dell'indennita' di espropriazione (con il solo limite dell'effettivita', serieta' ed adeguatezza, l'occupazione appropriativa si colloca fuori dai canoni di legalita' e, quindi, in essa opera "il diverso principio, secondo cui ha subito un danno per effetto di un'attivita' illecita ha diritto ad un pieno ristoro" (Corte costit. 442/1993); sicche' il diritto all'integrale risarcimento, come strumento di reintegrazione del patrimonio del soggetto offeso in sostituzione e surrogazione, fin dal momento dell'atto illecito pregiudizievole, del diritto dominicale sottratto dal comportamento illegittimo altrui, viene a cadere - esso stesso - sotto la tutela dell'art. 42 comma terzo cost., divenendo condizione di legittimita' dell'ablazione di fatto (al pari della dichiarazione di p. u. dell'opera). E, d'altra parte se nel conflitto tra il diritto reale del proprietario del suolo e quello dell'autore della costruzione, il sacrificio del primo, pur quando derivi da ablazione illegittima e' giustificato non solo dalla prevalenza dell'interesse pubblico alla conservazione dell'opera, ma dal fatto che lo stesso viene riequilibrato in positivo dalla previsione del diritto dell'espropriato all'integrale risarcimento del danno (in luogo del mero indennizzo) compensativo del plus del sacrificio, connesso all'arbitrarieta' dell'occupazione, non e' poi possibile neppure al legislatore, come, invece ha fatto l'art. 1, comma sessantacinque, legge n. 549/1995, imporre all'espropriato un secondo ulteriore sacrificio proprio nella determinazione di detto ristoro; che si tradurrebbe in una nuova (parziale) ablazione - questa volta senza corrispettivo - dell'aliquota di risarcimento non piu' concessa, percio', non consentita dal menzionato precetto costituzionale. 4 - Ma la norma appare in contrasto anche con gli art. 3 e 24 della Costituzione: si e' detto, infatti, della linea di rinnovamento interpretativo, sviluppatasi a partire dai primi anni 70, in base alla quale la giurisprudenza della Corte costituzionale, dopo aver negato che l'intangibilita' dell'atto amministrativo traesse origine da un (costituzionalizzato) principio della divisione dei poteri ed avesse fondamento costituzionale (sent. 32/1970 e 161/1971), ha enucleato il principio che la p. a. ha una posizione di preminenza in base alla Costituzione non in quanto soggetto, ma in quanto esercita potesta' specificamente ed esclusivamente attribuitele nelle forme tipiche loro proprie. In quest'ottica, condivisa e propugnata dalla Corte di cassazione, e' protetto non il soggetto, ma la funzione, ed e' alle singole manifestazioni della p. a. che e' assicurata efficacia per il raggiungimento dei vari fini pubblici ad essa assegnati. Pertanto, ha affermato la Consulta in numerose pronunce (138/1981; 61, 303 e 1104/1988), al di fuori dell'esercizio delle predette funzioni, l'azione dell'amministrazione rientra nella disciplina di diritto comune, ed, ove venga a ledere un diritto soggettivo, la potenzialita' di tutela di questo affidata al giudice ordinario e' completa; e la posizione della, p. a. non e' diversa da quella di qualsiasi altro debitore. Ora l'art. 1 della legge 549 non ha modificato la struttura dell'occupazione appropriativa fondata sul comportamento illecito della p. a. che, appreso senza titolo un suolo privato, vi costruisca l'opera pubblica rendendone giuridicamente impossibile la restituzione, in consapevole violazione delle norme che stabiliscono in quali casi e con quale procedimento la proprieta' di un immobile privato puo' essere autoritativamente sacrificata per esigenze di pubblico interesse; per cui, essendo rimasta immutata tale connotazione, allorche' l'amministrazione (o l'ente da essa delegato) sceglie di non avvalersi della procedura ablativa, ma di acquisire il fondo privato tramite l'istituto in esame, il rapporto necessariamente rientra, a causa dell'autoassoggettamento dell'ente pubblico al regime di diritto comune da esso prescelto, nell'ambito di applicazione e nello schema di cui all'art. 2043 cod. civ., e deve, quindi, trovare nella regola privatistica dettata da tale norma la propria misura e la propria sanzione. La quale e', di conseguenza, unica per tutti i debitori autori del fatto illecito - siano essi pubblici o privati - e consiste, sempre e comunque, nella completa reintegrazione patrimoniale del danneggiato a titolo risarcitorio, di cui, peraltro, il controvalore del bene sottratto non e' che uno dei possibili parametri di determinazione: come, del resto, e' stato confermato nel settore in esame dal menzionato art. 3 della legge n. 458 del 1988, prima delle modifiche apportate dalla disposizione legislativa denunciata. Quest'ultima, invece, opera una discriminazione non razionalmente giustificabile tra i creditori della p.a. (ovvero di privati) a titolo risarcitorio extracontrattuale e creditori della p.a. (ovvero di enti dalla stessa delegati) egualmente a titolo risarcitorio, ma per effetto di accessione invertita, non consentendo soltanto a questi ultimi, egualmente danneggiati, come i primi, da un fatto illecito, di conseguire il ristoro dell'intero pregiudizio subito secondo i criteri di cui all'art. 1223 cod. civ.; e, quindi, di agire in giudizio per la tutela della quota di credito decurtata, come, invece, avrebbero diritto in base al disposto dell'art. 24 Costit. E la discriminazione appare ancor piu' palese ed incoerente perche' lo stesso legislatore in ogni altra ipotesi di interferenza e/o congiunzione di beni appartenenti a proprietari diversi con attribuzione del tutto ad uno solo di essi e sacrificio del diritto dominicale dell'altro (art. 934/940 cod. civ.), a quest'ultimo attribuisce non soltanto un indennizzo, ma anche il risarcimento dell'ulteriore danno subito per la perdita del bene; e perche' analoga conseguenza e' stata garantita al suddetto proprietario perfino dalla legislazione antecedente alla Costituzione che ha introdotto (precorrendone la disciplina) singole fattispecie di occupazione appropriativa (cfr. art. 70 legge n. 2359 del 1865; 225 segg., nonche' 360 legge n. 2248 del 1865 All. F; 93 r.d. 350 del 1895). Ne' e' sostenibile che le posizioni delle due categorie di creditori siano disomogenee e non comparabili per le specifiche finalita' di pubblica utilita' perseguite dagli autori dell'accessione invertita, volute tutelare dalla norma, in quanto: a) essendo tutta l'attivita' dell'amministrazione (anche quella di diritto comune) istituzionalmente preordinata alla realizzazione di fini ed interessi pubblici, non e' in vista del perseguimento di questi o di quelli che la Costituzione consente al legislatore di scegliere un trattamento differenziato rispetto agli altri soggetti dell'ordinamento; ma, - si e' visto - unicamente in presenza di atti e comportamenti che siano veramente espressivi della funzione amministrativa, come dimostra da ultimo, nel versante pubblico, il piu' riduttivo criterio "mediato" scelto dall'art. 5-bis della legge n. 359 del 1992 per il calcolo dell'indennita' di espropriazione legittima, e giustificato, secondo la Consulta (283/1993) anche dall'intento di contenerne la relativa spesa, "nel contesto di una piu' vasta ed organica manovra finanziaria dello Stato"; b) d'altra parte, nel versante privatistico, la fattispecie di cui all'art. 2043 cod. civ. e' integrata da una condotta antigiuridica, dall'esistenza di un danno e dal nesso di causalita' tra la prima ed il secondo, mentre restano ad essa estranei sia i motivi che gli scopi per cui il danneggiante ha commesso il fatto illecito; c) infine, proprio la valenza di questi ultimi e' stata considerata dal legislatore una prima volta, e giudicata decisiva nella scelta del soggetto cui attribuire la titolarita' del nuovo contesto fondo-opera pubblica; per cui non ne e' permessa una seconda valutazione, ancora in danno del soggetto gia' sacrificato dalla prima proprio in ordine alla consistenza dello strumento riparatorio preordinato a compensarne e riequilibrarne gli effetti pregiudizievoli. La quale, in definitiva, finisce per ridurre il fatto illecito dell'amministrazione ad un merum nomen, che piu' non si riflette in negativo sul suo autore e del quale, anzi, sopravvive paradossalmente soltanto il piu' favorevole (per l'espropriante) regime della prescrizione di cui all'art. 2947 cod. civ., rispetto a quello ordinario cui e' sottoposto l'indennizzo. 5. - I precetti degli art. 3 e 24 Costit. sembrano poi, vulnerati sotto altro profilo: cio' perche' l'art. 1 comma sessantacinquesimo, non solo sottrae al proprietario vittima dell'illecita ablazione l'integrale risarcimento del danno sofferto, ma lo pone in una condizione addirittura sfavorevole rispetto a quello che ha perduto l'immobile con vocazione edificatoria per effetto di una corretta procedura espropriativa. Infatti, seppure l'indennizzo espropriativo in favore di quest'ultimo deve essere calcolato, secondo il menzionato art.5-bis, in misura pari alla semisomma del valore venale dell'immobile e dei redditi dominicali dell'ultimo decennio (si' da essere pari a circa il 50% di detto valore), il proprietario in questione puo' evitare l'ulteriore abbattimento del 40% previsto dalla norma (che ridurrebbe l'importo a circa il 30% dell'effettivo valore venale), accettando l'indennita' determinata in sede amministrativa e convenendo la cessione volontaria del bene. Ma il sub-procedimento di determinazione ed offerta dell'indennita' (provvisoria) di espropriazione non puo' trovare collocazione nel contesto della vicenda estintivo-acquisitiva, in cui, fino al momento dell'irreversibile trasformazione del fondo, l'amministrazione occupante (al pari dell'ente da essa delegato) e' tenuta alla sua restituzione ed esposta alle azioni restitutorie e possessorie esperibili dal proprietario (Cass. 12266 e 2414/1993; 8418/1992; 1867 e 1863/1991); mentre successivamente su di essi grava, ex art. 2043 cod. civ., l'obbligazione del risarcimento del danno avente natura e funzione affatto diverse dall'indennita' di espropriazione; che, infatti, nell'ablazione subita dalla Guarrasi - oggetto del giudizio che si rimette a codesta Corte - non e' stata mai determinata ed offerta ne' dal comune di Alcamo, ne' dalla cooperativa dallo stesso delegata. Ancor meno praticabile e', poi, la cessione volontaria (costituente, secondo la Consulta, la vera finalita' intesa perseguire dal legislatore del 1992), pur nell'ipotesi che detti enti offrano all'ex proprietario una somma a titolo risarcitorio del danno provocato: perche', al pari di quanto si verifica per il decreto ablativo emesso successivamente alla vicenda estintivo-acquisitiva, il contratto di cessione che dovrebbe seguire all'accettazione della somma, sarebbe radicalmente nullo per mancanza di oggetto e di causa, non potendo l'amministrazione acquistare un bene gia' entrato a far parte del suo demanio o del suo patrimonio indisponibile (Corte costit. n. 283/1993 in motivaz.). Per cui, in definitiva, per effetto della norma del 1995, il proprietario che subisce l'occupazione acquisitiva, puo' ottenere dall'espropriante soltanto una somma pari a circa il 30% del valore venale del fondo sottrattogli, a differenza del soggetto passivo dell'espropriazione legittima, che, accettando l'indennita' offertagli, consegue il 50% dello stesso valore; e beneficia del piu' vantaggioso termine di prescrizione decennale per richiederne il pagamento. 6. - Sussistono ulteriori profili, contigui a quello ora prospettato, di sospetta violazione dei menzionati precetti costituzionali: l'art. 46 legge n. 2359 del 1865 attribuisce un'indennita' ai proprietari dei fondi i quali dalla esecuzione dell'opera di pubblica utilita' vengano a soffrire un danno permanente derivante dalla perdita o dalla diminuzione di un diritto. Questa norma, costituente da decenni un'ipotesi tipica di responsabilita' della p.a. per atti legittimi, e' stata sempre interpretata dalla Corte di cassazione nel senso di ritenersi applicabile, anzitutto, all'ipotesi di distruzione o eliminazione di un immobile presistente e, comunque, di annullamento delle facolta' costituenti il nucleo essenziale del diritto dominicale (S.U. 57/1978; 4380/1987; 9693/1990); e, quanto all'oggetto dell'indennizzo, che, seppure dalla sua previsione esulano i danni per lucro cessante peculiari del solo risarcimento per fatto illecito, lo stesso deve necessariamente comprendere l'intera perdita di contenuto patrimoniale effettivamente ed oggettivamente derivata dall'esecuzione dell'opera pubblica: e, quindi, ove essa consista nella distruzione di un immobile o nell'azzeramento delle facolta' del proprietario, il controvalore intrinseco del bene (Cass. 778/1993; 11782/1992; 3188/1994; 77/1975). In base a queste considerazioni appare palese la disparita' di trattamento tra il proprietario del fondo contiguo che per effetto dell'opera pubblica, perda definitivamente l'immobile o, comunque, subisca il totale svuotamento delle facolta' dominicali, ed il proprietario dell'immobile appreso per la realizzazione dell'opera suddetta; perche' il primo, perfino nell'ipotesi di ablazione legittima, puo' ottenere l'equivalente del bene ex art. 46 della legge n. 2359 (e, nell'ipotesi di ablazione illegittima, anche i danni per lucro cessante: cfr. Cass. 6754/1994), laddove l'art. 1, comma sessantacinquesimo, in esame attribuisce al secondo soltanto un'aliquota pari a circa il 30% del valore del fondo illegittimamente sottrattogli. Eguale disparita' di trattamento, la Corte deve ravvisare tra quest'ultimo e lo stesso proprietario che subisca l'occupazione illegittima del proprio fondo, tuttavia non trasformata in opera pubblica (e, comunque, per il periodo compreso tra l'occupazione sine titulo e la irreversibile trasformazione), ovvero trasformata senza alcuna dichiarazione di p.u.: in queste ipotesi, infatti, costituenti una fattispecie di illecito di natura permanente, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, ormai consolidata da decenni, al suddetto proprietario spetta l'integrale risarcimento del pregiudizio subito in tutte le componenti di cui all'art. 2043 cod. civ. (ivi incluso il lucro cessante derivante dalla perduta possibilita' di vendita dell'immobile ovvero di utilizzarlo per scopi edilizi); e soltanto nell'ipotesi in cui egli si sottragga all'onere di fornire la relativa prova, gli interessi legali annui sull'intero valore venale del fondo occupato (Cass. 2791/1989; 2617/1985; 1196/1986 3590/1983). Analogo criterio vale per il proprietario che subisca l'imposizione di fatto di una servitu' (di elettrodotto, gasodotto, acquedotto ecc.) sul proprio fondo, anch'egli titolare del diritto all'integrale ristoro del danno provocatogli dall'asservimento, pur ricevendo un pregiudizio inferiore rispetto al proprietario che subisca l'accessione invertita (Cass. S.U. 8065/1990; 2724/1991; nonche' 3573/1992; 250/1995). E seppure, secondo la Consulta il principio di eguaglianza esige la presenza di situazioni omogenee e, quindi, comparabili, quali per certi versi non sono quelle rappresentate nelle ultime fattispecie, e' pur vero che siffatta giurisprudenza ne preclude l'applicazione allorche' la situazione di chi l'invochi sia deteriore rispetto a quella legislativamente privilegiata o comunque priva di quei presupposti di fatto e di diritto che questa, invece, possiede. Ma, nel caso, la discriminazione che si denuncia e' di segno opposto nel senso che, pur provocando il fatto illecito in esame la lesione e le conseguenze pregiudizievoli massime ipotizzabili nel settore dei diritti reali, le stesse ricevono una minor tutela rispetto alle altre situazioni evidenziate, per effetto della norma contestata; che trasmoda percio', in un regolamento arbitrario e ridondante in una ingiustificata disparita' di trattamento: tanto piu' irrazionale in quanto la Corte costituzionale aveva, semmai, ritenuto conforme ai canoni costituzionali che l'autore dell'illecita appropriazione subisca conseguenze economiche piu' gravose di quelle previste dal legislatore allorche' venga osservata la procedura ablativa. 7. - La stessa norma, infine, non sembra rispettosa neppure del precetto dell'art. 97 Costit.: dalla disposizione dell'art. 42 Costit. secondo cui la proprieta' puo' essere espropriata "nei casi preveduti dalla legge", consegue necessariamente non solo che spetta al legislatore questi casi determinare e regolare mediante specifiche procedure ablative, ma anche che, allorquando le pubbliche amministrazioni e gli enti da esse delegate intendono avvalersene, gli stessi ed i loro funzionari sono tenuti ad osservare rigorosamente i procedimenti suddetti: lo richiedono, del resto, non solo il principio di legalita' dell'azione amministrativa (art. 13 segg., 24 e 113 Costit.), ma anche quelli di buona amministrazione e di imparzialita' dell'azione amministrativa, espressamente enunciati dall'art. 97 (e dall'art. 98, primo comma) Costit., al lume dei quali l'occupazione appropriativa non costituisce affatto un procedimento alternativo (e discrezionale) rispetto a quelli di espropriazione disciplinati dalla legge, ma soltanto una vicenda patologica e del tutto anomala; che infatti (proprio perche' lesiva del diritto dominicale dell'espropriato), ha fino ad ora esposto la p.a. ai maggiori e ben piu' gravosi esborsi previsti dall'art. 2043 cod. civ. (soprattutto, in caso di acquisizione di aree edificabili); ed ha costituito, di riflesso, possibile causa di responsabilita' contabile dell'amministratore (o funzionario) pubblico che li ha provocati non osservando la procedura ablativa. Questo sistema e' stato recentemente completato dagli art. 4 e segg. della legge 241 del 1990 che hanno creato la figura del funzionario responsabile del procedimento amministrativo (cfr. anche gli art. 23 legge n. 144 del 1989 e 123 d.-l. n. 77 del 1995 che, infrangendo il principio dell'impersonalita' dell'apparato pubblico, hanno introdotto un'ipotesi inedita di responsabilita' diretta e personale di detto funzionario per gli effetti dell'attivita' contrattuale da esso compiuta in violazione delle disposizioni di legge sulla contabilita' di alcuni enti pubblici). Con tale contesto, volto al recupero del senso di legalita', di correttezza e di responsabilita' della p.a. e dei suoi funzionari, si pone in piena collisione la norma denunciata, la quale non solo rimette al mero arbitrio dell'una e degli altri la scelta del fatto illecito piuttosto che del procedimento legittimo per acquisire la proprieta' privata, ma li induce necessariamente a privilegiare il primo, perche' divenuto, in seguito al nuovo parametro risarcitorio, piu' rispondente agli interessi economici dell'amministrazione: nell'ipotesi comune e normale, infatti, il procedimento ablatorio legittimo si svolge attraverso un periodo di occupazione temporanea d'urgenza non superiore ai cinque anni (piu' volte prorogati da recenti e ben note disposizioni legislative), prima della cui scadenza viene adottato il decreto di esproprio; sicche' l'espropriante e' tenuto al pagamento di un indennizzo per il detto periodo di occupazione oltre all'indennita' di espropriazione. La quale, ove venga accettata dal proprietario, e' pari, come si e' visto, a circa il 50% del valore venale dell'immobile determinato con riferimento temporale alla data del decreto ablativo, in cui il valore del bene ha subito una (talvolta notevole) lievitazione rispetto al momento dell'iniziale occupazione. Invece, con l'espropriazione di fatto, divenuta piu' conveniente in forza della norma censurata, la p.a. puo' evitare, sia il ricorso all'occupazione temporanea (con gli oneri economici correlati), sia l'offerta dell'indennita' provvisoria con la conseguente ulteriore riduzione dell'obbligazione risarcitaroria ad una somma corrispondente a circa il 30% del valore del suolo appreso, per di piu' determinato all'epoca dell'irreversibile trasformazione (solitamente di poco successiva alla materiale apprensione del bene): e, quindi, in definitiva meglio attenersi alle direttive economiche perseguite dal legislatore del 1995, seppur con sacrificio del ricordato art. 97 Costit. che le impone di confrontare e comparare sempre e comunque, nel perseguimento dei compiti affidatile, le posizioni e gli interessi dei privati anche quando siano confliggenti e contrastanti con quelli propri (cfr. art. 13 T.U. n. 3 del 1957). Anche sotto questo profilo, dunque, la norma si rivela, per un verso, priva di una qualsiasi ratio che non sia quella di privilegiare le esigenze della finanza pubblica; e si palesa, per altro verso, come una negazione, non solo del buon andamento e i dell'imparzialita', ma anche di una razionale e coerente attivita' dell'amministrazione. Considerato, pertanto, che la questione prospettata risulta rilevante per il giudizio in corso che non puo' essere definito senza la sua decisione.